IL DECOMPUTER FARALLON: UN ANTAGONISTA MANCATO DEL DECOMPRESSIMETRO SOS

MAURIZIO BALDINUCCI

Nell’ambito dello sviluppo tecnologico delle attrezzature per le immersioni sportive, il decompressimetro meccanico rappresenta senza dubbio una pietra miliare nel lungo cammino che, partendo dalle tabelle d’immersione con impiego di orologio e profondimetro, ha portato all’era dei computer subacquei digitali.
In particolare, quando si parla di decompressimetro meccanico, il protagonista assoluto a livello mondiale fu il modello DCP, inventato dall’Ing. Carlo Alinari nel 1959 con la collaborazione del suo socio Ing. Victor Aldo De Sanctis e presentato l’anno successivo all’assemblea generale della Cmas di Barcellona. I due soci dettero vita alla SOS (Strumenti Ottici Subacquei) azienda che, oltre alla produzione dei decompressimetri meccanici, divenne famosa nel mondo per molti altri prodotti innovativi e di elevata qualità. La storia del decompressimetro DCP e di tutti i modelli successivi prodotti dall’azienda torinese fino agli inizi degli anni ’80, quando l’avvento dei primi computer digitali ne decretarono in breve tempo la loro scomparsa dal mercato, è efficacemente illustrata nell’articolo di Andrea Campedelli pubblicato nella sezione “Parliamo di…” di questo sito.
La cosa che mi ha aveva sempre stupito nella ricerca di informazioni su questi strumenti e nel raccogliere esemplari vari per la mia collezione di attrezzature subacquee storiche, era che quasi tutte le principali aziende produttrici mondiali (Scubapro, Mares, Cressi, Technisub, Dacor, Beuchat, ecc.) avevano scelto di distribuire con il proprio marchio su licenza gli stessi decompressimetri della SOS piuttosto che commercializzarne altri da loro progettati e sviluppati. Probabilmente l’impegno e gli investimenti necessari per ottenere prodotti competitivi rispetto a quelli della casa torinese erano considerati troppo elevati e ingiustificati dal punto di vista del rapporto costi/benefici.
L’altra motivazione poteva essere che tutte le esperienze di ricerca, di sviluppo e di fabbricazione di strumenti meccanici alternativi al DCP avessero avuto esito negativo o si fossero concluse in maniera fallimentare, scoraggiando di fatto la maggior parte delle aziende costruttrici di attrezzature subacquee nell’intraprendere lo stesso percorso.
L’unica eccezione che ero riuscito a identificare era quella di uno strumento sviluppato e distribuito a partire dal 1974 dall’azienda statunitense Farallon, strumento battezzato con il nome commerciale di Decomputer. La Farallon, fondata da Ralph Osterhout, geniale personaggio ancora in affari con la sua Osterhout Design Group, ed attiva per qualche anno dagli inizi degli anni ’70 fino al 1976 quando confluì nell’azienda Tekna, si distinse sul mercato soprattutto per i suoi celebri DPV (Diver Propulsion Vehicles) che costituirono per tutti i costruttori successivi di questi apparecchi il principale riferimento per soluzioni tecniche, qualità, prestazioni ed innovazioni. La Farallon tuttavia si cimentò anche nella costruzione di attrezzature più convenzionali quali maschere, snorkel, pinne (celebri le Fara-Fin dotate di cavigliere snodate e regolabili), manometri, profondimetri e bussole.
Tornando al Decomputer, la cosa piuttosto sorprendente era che di questo strumento, già piuttosto difficile da reperire sul mercato delle attrezzature subacquee vintage, esistevano anche pochissime informazioni disponibili in rete o all’interno di libri e pubblicazioni commerciali (cataloghi, listini, volantini, ecc.). Gli unici riferimenti che ero riuscito a trovare su Internet sono le due pubblicità commerciali in lingua inglese raffigurate nelle figg. 1 e 2.

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Come si può notare il Decomputer era distribuito in due versioni; quella da polso raffigurata nella fig. 1 e quella montata in consolle con manometro e bussola come mostrato nella fig. 2.
Di queste due versioni qualche anno fa mi era capitato di acquistare, in una delle tante aste sul web, proprio la consolle Farallon che sembrava addirittura mai entrata in acqua (vedi figg. 3 e 4).

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Tuttavia, non avendo trovato nulla di significativo che potesse meglio illustrare i principi di funzionamento dello strumento, spiegare la quasi assenza di informazioni al riguardo e la rarità degli esemplari disponibili sul mercato delle attrezzature subacquee da collezione, per molto tempo non avevo più ripreso in mano l’argomento. Poi improvvisamente qualche settimana fa ho avuto la fortuna di trovare ed acquistare su eBay un esemplare del Decomputer in versione da polso e mai utilizzato in acqua (forse un fondo di magazzino come mostrato nelle figg. 5, 6, 7 e 8).

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La cosa più importante però, al di là delle ottime condizioni dell’esemplare in questione, era che in questo caso il decompressimetro era completo di contenitore originale e di tutta la documentazione allegata al momento della vendita dell’apparecchio (vedi figg. 9 e 10).

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Lo studio di questa documentazione mi ha consentito di colmare la maggior parte delle lacune in termini di conoscenza che avevo su questo strumento e mi ha suggerito di scrivere questo articolo proprio con l’obiettivo di condividere tutto ciò con i colleghi collezionisti e con tutti gli appassionati di questa materia.
Intanto una premessa importante stampata nella documentazione di prodotto e rivolta agli acquirenti di questo strumento e cioè: “Il Decomputer dovrebbe essere usato insieme alle tabelle US Navy per pianificare in sicurezza le tue immersioni. Non è progettato per essere usato in alternativa o in sostituzione di esse”.
Questa impostazione era forse da considerarsi un limite importante dello strumento rispetto al suo concorrente principale DCP SOS che da anni era impiegato come dispositivo in grado di gestire l’immersione senza necessariamente consultare le tabelle in immersione e forniva indicazioni più chiare rispetto alle necessità di soste di decompressione, mostrando anche le profondità consigliate per le tappe. Tuttavia, come vedremo nel seguito dell’articolo, queste limitazioni non costituirono la causa principale dell’insuccesso commerciale del Decomputer.
Le informazioni contenute nella suddetta documentazione allegata all’esemplare acquistato consentono di descrivere con precisione il funzionamento dello strumento il cui schema costruttivo è mostrato nella fig. 11.

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Il principio di funzionamento del Decomputer non è sostanzialmente diverso da quello del DCP SOS, in quanto si base sul principio di flusso ritardato e controllato di gas attraverso un mezzo semipermeabile. Nel caso del DCP questo mezzo è costituito da un setto in ceramica, nel Decomputer il sistema di controllo del flusso di gas è realizzato da una membrana semipermeabile in silicone. Anche nel decompressimetro Farallon troviamo la sacca elastica che contiene il gas che attraversa nei due sensi il setto semipermeabile in funzione della fase dell’immersione (discesa o risalita), ma il sistema che indica la condizione dei tessuti rispetto agli eventuali obblighi decompressivi è fondamentalmente diverso. Nel DCP si tratta del classico meccanismo a tubo di Bourdon con ago e quadrante rotondo mentre nel Decomputer due indicatori di colore nero si muovono linearmente su un campo a tre colori con i seguenti significati: verde-nessun obbligo di decompressione; bianco-zona di attenzione; rosso-obbligo di decompressione. I due indicatori rappresentano i due diversi compartimenti tissutali sui quali è basato il principio di funzionamento dello strumento: quello di sinistra tiene conto dei tessuti “lenti” mentre quello di destra rappresenta i tessuti “veloci”. Le diverse velocità di flusso rappresentative dei due tessuti venivano ottenute aumentando o diminuendo la superficie di passaggio della base di supporto sulla quale la membrana era appoggiata e fissata. Lo strumento era anche in grado di riprodurre una velocità di passaggio del gas minore durante la fase di risalita rispetto a quella della fase di discesa. Questo meccanismo simulava il tipico meccanismo di desaturazione dei tessuti al termine dell’immersione e consentiva di gestire in sicurezza le immersioni ripetitive. A questo proposito all’interno dello strumento erano montate due valvole unidirezionali (una per ogni tessuto preso in considerazione) che si aprivano durante la discesa e si chiudevano durante la risalita, facendo così variare le superfici totali della membrana attraverso cui fluiva il gas e quindi le corrispondenti velocità di efflusso. Questo principio è ben illustrato negli spaccati di figg. 12 (discesa) e 13 (risalita).

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L’altro elemento che ho potuto trarre dalla documentazione allegata allo strumento e che ritengo importante condividere con gli appassionati è la descrizione completa dell’intero processo produttivo del Decomputer e delle attrezzature impiegate per l’assemblaggio, le calibrazioni e il collaudo finale dello strumento. Normalmente queste informazioni non sono diffuse e disponibili al pubblico da parte dei costruttori ed io personalmente non avevo mai trovato nulla di simile su queste apparecchiature fino a questo momento. Ho pensato quindi che riportare tali informazioni all’interno di questo articolo fosse di interesse per gli appassionati dell’argomento.
Dalla lettura della documentazione si può dedurre che la Farallon dedicò grandi risorse e notevoli investimenti a questo prodotto (nella documentazione si dichiara che il costo delle attrezzature di assemblaggio e di collaudo era stato di 110.000 dollari, che erano comunque una bella cifra a metà degli anni ’70) allestendo un reparto di montaggio e collaudo dedicato, ospitato all’interno di una “stanza pulita” (clean room). Questo tipo di ambiente (vedi fig. 14), attraverso il mantenimento di una leggera pressurizzazione interna, impediva a polvere o altri contaminanti normalmente presenti nell’atmosfera di depositarsi sui componenti degli apparecchi in fase di assemblaggio compromettendone poi il funzionamento e la ripetibilità delle prestazioni. Questo tipo di infrastruttura è oggi uno standard per ogni processo di fabbricazione-montaggio di apparecchiature elettroniche e di precisione.

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Il processo di montaggio del Decomputer iniziava con la verifica dei componenti più importanti dello strumento, tra i quali le molle di precarica delle camere pneumatiche collegate agli indicatori di saturazione (che dovevano avere la caratteristica forza/corsa entro il limite di tolleranza di ±1,25 % rispetto al valore nominale) e il polmoncino flessibile in gomma siliconica (che non doveva mostrare alcuna perdita pneumatica). Per una maggiore efficacia nell’individuazione delle eventuali perdite veniva usato elio anziché aria. Le due fasi qui descritte sono mostrate rispettivamente nelle figg. 15 e 16. 

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La sequenza di assemblaggio proseguiva con il montaggio delle valvole unidirezionali responsabili della variazione della velocità di efflusso del gas tra fase di discesa e fase di risalita (vedi fig. 17) e con la collocazione della membrana semipermeabile sulla sua base di appoggio con superfici pre-forate di aree diverse (in funzione della diversa velocità di efflusso del gas che si doveva realizzare). La manipolazione di questa speciale membrana (vedi fig. 18), il cui spessore era dell’ordine di due centesimi di millimetro, era particolarmente critica specialmente perché era molto suscettibile alle cariche elettrostatiche e doveva quindi essere trattata con uno speciale riduttore caricato al polonio.

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Visto che il comportamento delle membrane costituiva il “cuore” dell’apparecchio, esse venivano sottoposte ad uno specifico processo di test e di calibrazione in modo da ottenere velocità di efflusso del gas all’interno di specifiche tolleranze. Questo processo veniva eseguito utilizzando uno speciale banco computerizzato (vedi fig. 19). La sequenza di montaggio terminava con la saldatura ad ultrasuoni di tutti gli elementi dello strumento, in modo da formare un unico blocco in policarbonato (Lexan) che assicurava l’estrema integrità dell’assieme e la completa sigillatura dei componenti interni rispetto all’ambiente (vedi fig. 20).
 

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Dopo il montaggio gli strumenti venivano collaudati mediante lo speciale banco prova computerizzato mostrato nella fig. 21. In questo banco lo strumento veniva sottoposto a tre distinte immersioni simulate, la prima a 60 piedi (18 metri), la seconda a 110 piedi (33 metri) e la terza a 190 piedi (58 metri). Il tempo necessario a raggiungere la zona rossa (inizio decompressione) veniva confrontato con il corrispondente limite delle tabelle US Navy. Per tener conto delle inevitabili tolleranze sulla lettura dei vari strumenti, la Farallon definì un campo di accettabilità che era comunque più conservativo rispetto ai valori prescritti dalle tabelle (vedi l’area in grigio di fig. 22). Le unità che mostravano limiti di decompressione superiori rispetto a quelli delle tabelle venivano definitivamente scartate.

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Dopo il collaudo gli strumenti venivano sottoposti al controllo finale di qualità nel quale, oltre all’ispezione conclusiva, ogni esemplare veniva dotato di numero di matricola e di tutta la documentazione a corredo. Si provvedeva infine ad archiviare tutti i risultati di test e calibrazione per ogni futura necessità (vedi fig. 23). Infine, si inseriva l’unità e tutta la documentazione a corredo all’interno dello speciale contenitore trasparente con il quale il Decomputer sarebbe poi stato spedito a clienti finali e rivenditori (vedi fig. 24).

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Ora rimaneva l’ultima domanda a cui trovare una risposta e cioè: perché questo strumento, nonostante le prestazioni dichiarate, la qualità di fabbricazione e la semplicità d’uso, fu così poco diffuso sul mercato ed oggi è quasi introvabile?
Occorrevano altre ricerche sull’argomento. Un documento che ho trovato in rete e che mi ha fornito una prima utile indicazione sulla storia del Decomputer è stato la famosa pubblicazione “Proceedings of Dive Computer Workshop” contenente tutti gli articoli degli studi presentati nell’ambito dell’American Academy of Underwater Sciences Dive Computer Workshop svoltosi presso la U.S.C. Catalina Marine Science Center Santa Catalina Island, California dal 26 al 28 Settembre 1988. Questo evento resta uno dei maggiori appuntamenti a livello mondiale organizzati in relazione al tema dello sviluppo dei computer subacquei.
In particolare, uno di questi lavori intitolato “The History of Decompression Devices and Computers” a firma Karl E. Huggins del University of Michigan Underwater Technology Lab, tra i vari apparecchi presi in esame dedicava una mezza pagina proprio al Decomputer Farallon. Secondo quanto citato nell’’articolo questo apparecchio, insieme al DCP e altri strumenti simili, era stato oggetto di test specifici a cura dei ricercatori Howard, Red, K. Schmitt e P. Huisveld dello Scripps Institution of Oceanography di La Jolla California che avevano pubblicato nel 1975 uno specifico articolo dal titolo “Preliminary Observations on the Farallon Decomputer”. Durante questi test lo strumento venne trovato meno conservativo dei limiti US Navy non soltanto alle profondità maggiori (come anche per il DCP SOS) ma anche per le profondità minori (al contrario del DCP).
Sempre secondo quanto sostenuto nell’articolo anche la marina australiana aveva testato lo strumento trovandolo troppo permissivo e suscettibile di forte deterioramento meccanico (Flynn 1978).
Tra l’altro questo articolo sembrava confermare anche l’ipotesi avanzata nelle pagine precedenti e cioè che probabilmente la maggior parte delle aziende produttrici di attrezzature subacquee fossero di fatto state sconsigliate ad intraprendere lavori di progettazioni e di ricerca su prodotti alternativi al DCP SOS, viste le esperienze negative di tutti coloro che si erano cimentati per più di venti anni in attività di sviluppo di decompressimetri meccanici. Limitandoci soltanto agli apparecchi con funzionamento puramente meccanico, l’articolo cita le esperienze del Decomputer Mark I sviluppato dalla Foxboro nel 1955 e subito dopo presentato anche al NEDU (Navy Experimental Diving Unit) per valutazione, del calcolatore analogico progettato nel 1962 dalla DCIEM (Defence and Civil Institute of Environmental Medicine) e del decompressimetro meccanico prodotto come prototipo dalla General Electric nel 1973, il cui funzionamento era basato su membrane in silicone semipermeabili esattamente come per il Decomputer Farallon. Vista la contiguità temporale dei due progetti, ritengo anzi del tutto probabile che le esperienze e le soluzioni tecniche sviluppate per il decompressimetro General Electric abbiano costituito la base per le scelte tecniche adottate poi nel Decomputer Farallon.
Se grandi enti di ricerca, organizzazioni governative e grandi aziende di livello mondiale non erano riuscite a trovare soluzioni tecnicamente e commercialmente sostenibili, figuriamoci se i costruttori di attrezzature subacquee potevano essere invogliati a ripercorrere la stessa strada.
Per fare un paragone tra le prestazioni reali del Decomputer e quelle del DCP, ho utilizzato i dati provenienti da test specifici effettuati sul decompressimetro italiano e reperibili in rete (vedi fig. 25) con i pochi dati riportati nell’articolo del workshop e ho così sviluppato il grafico mostrato nella fig. 26.
Osservando questo grafico possiamo dedurre i seguenti elementi:

  • Sia il DCP che il Decomputer risultavano più permissivi delle tabelle US Navy per profondità superiori ai 60 piedi (18 metri)
  • Per profondità superiori a 150 piedi (45 metri) le differenze di lettura tra i due strumenti erano minime
  • Il DCP risultava essere più conservativo rispetto alle tabelle US Navy per profondità inferiori a 60 piedi (18 metri). Il Decomputer invece continuava ad essere meno conservativo delle tabelle anche per questo campo di profondità
  • Siccome tutte le unità Decomputer erano sottoposte a collaudo per verificare l’allineamento con le tabelle US Navy (mai meno conservative delle tabelle come mostrato nella fig. 22), il fatto che le letture durante i test fossero state molto diverse rispetto a quelle durante il collaudo in fabbrica, sembrerebbe confermare le conclusioni della marina australiana e cioè che il comportamento dello strumento fosse estremamente sensibile all’uso o forse a qualche altra condizione ambientale (temperatura ?).

Ho poi cercato di trovare altre informazioni consultando alcuni dei principali forum in rete dedicati alla subacquea storica e ho trovato la testimonianza di un vecchio dipendente della Farallon che era impiegato presso il reparto “Assistenza Clienti” (Customer Service) e che ricordava l’enorme quantità di questi strumenti restituiti dai clienti per problematiche varie di funzionamento. Per questo i tecnici di assistenza della Farallon avevano ironicamente ribattezzato il Decomputer “Decomposer”. Proprio a causa di questa situazione la Farallon decise di interrompere la produzione di questo apparecchio e di procedere con una campagna di richiamo generale con la restituzione ai clienti dell’intera somma versata per il suo acquisto. Questa decisione, che avrebbe portato a seri problemi economici per l’azienda e all’interruzione delle proprie attività (poi parzialmente riprese all’interno della nuova azienda Tekna), rappresenta il motivo principale per il quale questi strumenti sono molto rari e difficili da trovare anche nel mercato delle attrezzature subacquee storiche.
Per quanto detto nell’articolo possiamo certamente concludere che il Decomputer Farallon non sarà mai ricordato come uno strumento che ha influito in maniera significativa sulla storia della subacquea sportiva, ma le vicende di questo apparecchio costituiscono comunque  una importante testimonianza di come l’evoluzione tecnologica in questo settore abbia in qualche modo beneficiato anche dei tanti insuccessi tecnici e commerciali avvenuti durante l’evoluzione delle attrezzature per l’immersione.

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