Gli appassionati di storia dell’immersione sanno che il problema del salvataggio degli equipaggi dei sommergibili, non più in grado di riemergere per avarie meccaniche o danneggiamenti a seguito di operazioni militari, ha costituito per anni una sfida tecnologica che ha impegnato scienziati ed ingegneri ed ha portato alla progettazione di numerosi apparecchi per la respirazione subacquea. Spesso tali apparecchi sono stati poi impiegati anche in campi commerciali e sportivi.
Gli sviluppi più evidenti di questa tendenza si sono manifestati proprio nel nostro paese dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale dove i primi apparecchi per la respirazione subacquea autonoma impiegati in applicazioni civili e sportive furono proprio gli ARO (autorespiratori ad ossigeno) recuperati dai magazzini di materiale militare in esubero.
Le primissime soluzioni in questo settore vengono sviluppate nel Regno Unito già a partire dal primo decennio del 1900. In quel periodo in Inghilterra si registrarono diverse proposte di apparecchi per la respirazione autonoma di emergenza da impiegarsi in atmosfere tossiche (es. in caso di incendio o all’interno delle miniere) o per applicazioni subacquee. Tra queste, quella presa in considerazione dalla Royal Navy ed oggetto di prove specifiche per il salvataggio degli equipaggi dei sommergibili, fu l’apparecchio Hall-Rees (fig. 1) brevettato nel 1908 dal capitano Sidney Stewart Hall e dal medico Oswald Rees, entrambi della Royal Navy. La fig. 2 mostra foto e disegni relativi ad alcune prove eseguite con questo apparecchio sul sommergibile HM C7 nell’anno 1909.
fig. 1 | fig. 2 |
L'apparecchio fu poi prodotto dalla Siebe & Gorman LTD, famosa azienda britannica guidata per parecchi decenni da Sir Robert H. Davis, Managing Director e proprietario dell’azienda stessa, ma soprattutto sua principale mente creativa. Ed infatti questo scafandro aperto fu meglio noto negli anni successivi come apparecchio Hall-Rees-Davis.
Davis continuò a sviluppare e migliorare ulteriormente questo apparecchio che, nel 1927, venne definitivamente adottato dalla Royal Navy e successivamente anche da altre marine militari in tutto il mondo (compresa la Marina Militare Italiana). Davis lo battezzò DSEA (Davis Submerged Escape Apparatus), e lo brevettò anche negli USA agli inizi degli anni ’30. Del DSEA abbiamo parlato diffusamente in un articolo precedente.
L’altro paese europeo che lavorò attivamente, fin dagli inizi del ‘900, allo sviluppo di un apparecchio con le stesse finalità fu la Germania. In particolare, l’azienda di riferimento nazionale per la progettazione, lo sviluppo e la produzione di questo materiale era la Dräger fondata a Lubecca nel 1889 da Johann Heinrich Dräger e Carl Adolf Gerling. Ed è proprio del 1910 l’adozione, da parte della marina germanica, dell’autorespiratore ad ossigeno modello DM Tauchretter.
Dopo questa panoramica sulla produzione europea di quel periodo, parliamo ora di quella che fu la soluzione maturata e adottata nello stesso periodo negli USA dalla US Navy, il Momsen Lung.
La ragione principale che mi ha spinto a scrivere il presente articolo è stata la recente acquisizione addirittura di due unità di questo apparecchio, appartenenti a due sue diverse versioni.
Il Momsen Lung fu inventato da Charles Bowers Momsen (1896-1967), soprannominato affettuosamente “Swede” per i suoi caratteristici tratti somatici (fig. 3). Momsen percorse tutta la sua carriera all’interno della US Navy dal 1916 al 1955, quando si ritirò con il grado di Vice Ammiraglio. La grande vocazione e dedizione che Momsen mise per gran parte della sua carriera nel risolvere il problema del salvataggio dei marinai intrappolati all’interno dei sommergibili bloccati sul fondo ebbe il suo triste battesimo il 25 Settembre 1925, quando il sommergibile S-1 affondò su un fondale di 40 metri dopo essere stato speronato dal cargo City of Rome. Due anni dopo, nel Dicembre del 1927, un altro sommergibile, l'S-4 (SS-109), affondò al largo di Cape Cod. Anche in questo caso tutti i 40 membri dell’equipaggio non poterono essere salvati. Momsen cominciò a studiare il problema da vari punti di vista e seguì due diverse idee progettuali.
La prima fu quella di sviluppare una speciale campana d’immersione (queste apparecchiature erano già in uso dal secolo precedente) in grado di essere calata sul sommergibile, posizionata e fatta aderire con tenuta stagna in corrispondenza del portello di uscita. Dopo la connessione, la pressione all’interno della campana poteva essere equalizzata con quella all’interno del sommergibile, il portello aperto ed infine l’equipaggio trasferito e recuperato.
La seconda idea riguardava invece un apparecchio per la respirazione autonoma che l’equipaggio poteva indossare prima di abbandonare il sommergibile e con il quale poteva raggiungere la superficie in sicurezza. Da questa idea sarebbe poi nato il Momsen Lung.
La fase di genesi e di sviluppo della speciale campana si rivelò piuttosto lunga, finché fu finalmente completata nel 1930 e ufficialmente adottata dalla US Navy con il nome di McCann Submarine Rescue Chamber (fig. 4).
fig. 3 | fig. 4 |
La speciale campana sarebbe poi diventata famosa durante il recupero dei sopravvissuti del sommergibile Squalus, affondato nel Maggio del 1939 al largo della costa del New Hampshire ad una profondità di 74 metri. L’intera operazione di salvataggio, che durò ben 113 giorni e fu comandata dallo stesso Momsen, consentì di salvare 33 membri dell’equipaggio su un totale di 59 uomini. Per coloro che volessero approfondire questa vicenda, da molti considerata una delle più grandi operazioni di salvataggio della storia, consiglio di leggere il libro di Peter Maas “The Terrible Hours: The Greatest Submarine Rescue in History – March 1, 2001”. Per lo sviluppo della seconda idea, Momsen chiese l’aiuto del suo amico sottufficiale Clarence L. Tibbals e di Frank M. Hobson, un civile impiegato nel Bureau of Construction and Repair (che poi sarebbe diventato il Bureau of Ships), l’organizzazione della marina militare americana che si occupava di tutte le costruzioni navali ad essa destinate. Il lavoro di ricerca, progettazione e test di validazione si protrasse da Giugno 1929 a Settembre 1932 e comprese anche una immersione sperimentale con risalita dalla quota di 200 piedi (61 metri) per la quale Momsen ricevette dalla marina la Navy Distinguished Service Medal. Nello stesso periodo lui e i suoi collaboratori presentarono domanda di brevetto per questo apparecchio, domanda che fu accolta il 21 Novembre 1933 (fig. 5 e fig. 6). Dal punto di vista costruttivo e delle soluzioni progettuali tipiche, l'apparecchio si caratterizza per i seguenti elementi:
fig. 5 | fig. 6 |
- Si tratta di un apparecchio di respirazione a circuito chiuso che può funzionare utilizzando sia ossigeno che aria o anche una miscela qualsiasi di azoto e ossigeno.
- L’apparecchio funziona mantenendo il sacco polmone ad un volume costante. Questa funzione è assicurata da una valvola di scarico a becco d’anatra posta nella parte inferiore destra del sacco polmone. Durante la fase di risalita, il volume di gas in espansione viene scaricato attraverso la valvola suddetta. Nelle versioni prototipali e anche nella descrizione del brevetto, questa valvola di scarico è installata all’estremità di un tubo sufficientemente lungo ad assicurare che il sacco polmone venisse mantenuto ad una pressione leggermente superiore rispetto a quella ambiente. Tale soluzione fu poi abbandonata per una maggiore praticità e semplicità d’uso.
- Il gas impiegato nell’apparecchio non viene erogato da una bombola, come nella grande maggioranza dei dispositivi similari, ma viene immesso all’interno del sacco polmone da una fonte esterna che normalmente è il circuito di aria compressa dei sommergibili, oppure da bombole di stoccaggio per ossigeno o altri gas. Questa quantità di gas resta l’unica risorsa utilizzata dall’operatore dal momento dell’attivazione e dell’uscita dal sommergibile alla fine della fase di risalita.
- Il circuito respiratorio è di tipo ciclico con una capsula contenente calce sodata posta all’interno del sacco polmone sul lato destro e a monte della linea di inspirazione. Il gas espirato passa direttamente dal boccaglio al sacco polmone ed è collocato sul suo lato sinistro.
- Il boccaglio in metallo comprende anche le valvole unidirezionali che regolano la direzione del flusso di gas. La parte terminale del boccaglio in gomma non è provvista di cinghiolo di sicurezza, come nel caso del DSEA, ed è sagomata in modo da ostacolare la perdita accidentale di contatto con la bocca dell’operatore.
- Nella parte anteriore del sacco polmone è installata una piccola valvola, del tutto simile a quella impiegata per il gonfiaggio degli pneumatici delle automobili, che serve al carico iniziale di gas dell’apparecchio
- In maniera simile a quella impiegata in vari modelli analoghi di respiratori, l’apparecchio è assicurato al corpo dell’operatore mediante due distinti cinghiaggi: uno intorno al collo ed un altro posto nella zona ventrale. La cosa piuttosto curiosa in questo caso è che sono stati aggiunti due punti di collegamento con gli spigoli inferiori del sacco polmone, formati da catenelle e da morsetti a pinza. Questi morsetti possono essere velocemente assicurati alla tuta dell’operatore e servono ad impedire che il sacco possa sollevarsi nella parte inferiore quando immerso, creando impedimento al movimento e difficoltà nella respirazione.
- La minuscola bombola illustrata nella fig. 5 non fa parte delle dotazioni standard dell’apparecchio ma è semplicemente citata come mezzo generico per gonfiare il sacco polmone prima della fase di uscita dal sommergibile.
La cosa che mi ha colpito maggiormente leggendo il contenuto della domanda di brevetto e che sicuramente è atipica rispetto agli altri apparecchi è il fatto che questo sistema non prevede l’impiego di bombole o altri dispositivi di immagazzinamento di gas da impiegare durante la fase di risalita. La prima domanda che mi sono posto è stata la seguente: ma il gas iniziale contenuto nel sacco polmone poteva essere sufficiente ad assicurare la respirazione e a mantenere le funzioni vitali degli utilizzatori nelle principali situazioni di impiego e per le profondità operative previste? Abbiamo già citato in precedenza un'immersione sperimentale dalla profondità di 200 piedi (61 metri), effettuata con successo dal team di Momsen. Questi dubbi si sono amplificati quando, sempre nella domanda di brevetto, ho trovato l’affermazione che questo apparecchio, riuscendo a mantenere un volume costante del sacco polmone indipendentemente dalla profondità, sarebbe stato in grado di assicurare la funzione respiratoria per qualsiasi durata! Ma il consumo metabolico di ossigeno non lo consideriamo? La cosa piuttosto curiosa è che, a conferma e sostegno della tesi precedente, si fa l’esempio di una risalita a partire dalla profondità di 300 piedi (91 metri) con soste di decompressione ogni 10 piedi (3 metri) a partire dalla profondità di 70 piedi (21 metri). Le durate di queste soste, non avendo l’operatore a disposizione profondimetro e timer, venivano definite con un determinato numero di cicli di respirazione, numero variabile a seconda della profondità della sosta. Tale procedura doveva essere effettuata restando permanentemente in contatto con una speciale cima con piccoli galleggianti disposti ad intervalli di 10 piedi (3 metri), che l’operatore utilizzava per controllare la velocità di risalita e per capire la profondità alla quale si trovava (ed il conseguente numero di respirazioni necessarie previste da quella specifica sosta). Come si può notare dal disegno contenuto nella documentazione brevettuale questa cima, mantenuta in tensione da un galleggiante lanciato dal sommergibile prima dell’evacuazione, era assicurata in corrispondenza del portello di uscita dell’equipaggio (fig. 7).
Spinto dai dubbi relativi all’effetto del consumo metabolico dell’ossigeno in un volume di gas non reintegrato, mi sono messo a fare qualche conto per capire se la procedura di risalita enunciata nelle pagine del brevetto fosse verosimile. E i miei calcoli hanno dimostrato che già al termine della sosta a 60 piedi (18 metri), il gas all’interno del sacco polmone risulta nettamente ipossico, quindi non più in grado di sostenere le funzioni vitali dell’operatore. E’allora evidente che Momsen e i suoi collaboratori, nella fase iniziale di ideazione e di sviluppo dell’apparecchio, avevano idee piuttosto vaghe sulle principali leggi di fisiologia e sulle varie implicazioni nella respirazione dell’ossigeno in ambiente iperbarico. C’è poi da domandarsi come i membri dell’equipaggio, di certo sotto forte stress psicofisico per le condizioni estreme e la drammaticità della situazione, avessero potuto memorizzare ed applicare esattamente il piano di risalita con le varie soste di decompressione.
Tuttavia, visto che questo apparecchio fu poi adottato su tutti i sommergibili della US Navy per più di un trentennio, è logico pensare che i reali limiti di impiego del Momsen Lung vennero ben presto compresi e regolati da procedure operative più consone alle sue reali prestazioni. Possiamo ipotizzare che l’impiego reale dell’apparecchio non comprendesse più risalite con decompressione, ma piuttosto una fase di risalita molto più rapida e da profondità più modeste. Negli anni successivi la profondità standard per le esercitazioni sarebbe stata infatti portata a 50 piedi (15 metri). L’apparecchio che andò in produzione e fu adottato dalla US Navy è raffig.to nella fig. 8 nelle mani dello stesso Momsen.
fig. 7 | fig. 8 |
Già a partire dall'anno di presentazione della domanda di brevetto (1929), iniziarono le prime prove con il Momsen Lung sui sommergibili della marina americana. La fig. 9 mostra il gruppo di 26 marinai che effettuarono con successo una prova di uscita e di risalita da un vecchio sommergibile affondato appositamente. La foto di fig. 10 è stata scattata nel 1930 e si riferisce sempre a questo periodo iniziale di prove ed addestramento degli equipaggi. Qui viene mostrato un marinaio equipaggiato con un Momsen Lung, in fase di uscita dal portello del sommergibile USS V-5 (SC 1).
fig. 9 | fig. 10 |
Negli anni successivi l’apparecchio fu sottoposto a varie modifiche e miglioramenti, come testimoniano le foto delle fig. 11 e 12.
fig. 11 | fig. 12 |
La modifica principale riguardava la posizione del sacco polmone che venne progressivamente sollevata dalla zona ventrale all’area della cassa toracica. Questa decisione era senz’altro legata alla necessità di ridurre lo sforzo espiratorio, probabilmente ritenuto eccessivo. Di conseguenza anche la lunghezza dei tubi corrugati fu ridotta, come si vede dalla fig. 11. Successivamente, come mostrato nella fig. 12, i tubi corrugati vennero addirittura eliminati e sostituiti da due corti tubi metallici sagomati e posti tra il boccaglio e la piastra superiore di collegamento con il sacco polmone. L’altra modifica minore introdotta fu lo spostamento della valvolina di carica del sacco polmone dalla posizione originaria alla piastra di collegamento tra il sacco e i tubi corrugati.
E proprio a questa fase di trasformazione dell’apparecchio, dalla versione iniziale a quella che sarà poi la sua configurazione definitiva, appartiene uno degli esemplari che sono stato in grado di acquisire recentemente per arricchire la mia collezione.
L'apparecchio è stato costruito dalla MSA, Mine Safety Appliances and Co. di Pittsburgh Pennsylvania, un’azienda fondata nel 1914 e specializzata nella produzione di attrezzature ed equipaggiamenti di salvataggio destinati a numerosi settori civili e militari. Questo esemplare in particolare è mostrato nelle fig. 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21 e 22 ed era in dotazione alla marina nazionale argentina. Come si può vedere dalle foto, è in discrete condizioni di conservazioni ad eccezione del boccaglio, completamente collassato e ridotto ad una massa informe.
fig. 13 | fig. 14 |
fig. 15 | fig. 16 |
fig. 17 | fig. 18 |
fig. 19 | fig. 20 |
fig. 21 | fig. 22 |
Questa versione non fu l’ultima, in quanto l’impiego reale dell’apparecchio suggeriva altri aggiornamenti che avevano lo scopo di rendere il Momsen Lung sempre più efficace, pratico e anche economico. Il sacco polmone fu ulteriormente spostato in alto e la sua forma ottimizzata in modo da ridurre ancora lo sforzo espiratorio. Per la prima volta nella storia viene proposta la forma a ferro di cavallo nella zona superiore del sacco, forma che sarà poi ripresa anche dal famoso ARO modello 57/B prodotto dall’azienda italiana Cressi Sub a partire dal 1957. Ed infine Momsen comprese che per un respiratore come questo impiegato per un periodo di tempo così breve l'adozione di un circuito respiratorio di tipo ciclico non portava vantaggi decisivi, a fronte di una maggiore complessità costruttiva e costi più elevati. Fu quindi deciso di trasformare il circuito di respirazione da ciclico a pendolare. La soluzione definitiva del circuito di respirazione pendolare adottata nell’apparecchio fu quella proposta da Ferdinand C. Claudius che depositò lo specifico brevetto US1,999,086 illustrato nella fig. 23 e 24.
fig. 23 | fig. 24 |
La versione finale dell’apparecchio venne introdotta nei sommergibili americani prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, come mostrato nella fig. 25. Oltre al respiratore e al libretto di istruzioni, il kit di emergenza venne completato con l’aggiunta degli speciali occhiali protettivi illustrati nella fig. 26. La funzione primaria di questo dispositivo era quella di proteggere gli occhi del personale (consentendone anche la visione) nelle fasi preparatorie all’abbandono del sommergibile, nel caso di presenza nell’ambiente dei velenosi vapori di cloro che erano normalmente emessi dalle batterie in caso di contatto con l’acqua salata. Questo evento costituiva una delle cause principali di morte per asfissia dei sommergibilisti in questo tipo di situazione.
fig. 25 | fig. 26 |
Il Momsen Lung, nella sua versione finale illustrata nella locandina di fig. 27, è raffigurato al centro della fig. 28 insieme ai suoi competitori impiegati dalle principali marine dei paesi occidentali durante la Seconda Guerra Mondiale, il tedesco Gegenlungen (Tauchretter), prodotto dalla Dräger (sulla sinistra), e il britannico DSEA prodotto dalla Siebe & Gorman Ltd (sulla destra).
fig. 27 | fig. 28 |
A ben vedere, anche la configurazione degli apparecchi tedeschi impiegati durante la guerra non era molto diversa da quella del respiratore statunitense. Questo apparecchio infatti fu brevettato negli USA quasi contemporaneamente al Momsen Lung, come possiamo vedere nella fig. 29. A parte la configurazione del sacco e dell’imbragatura, l’unica differenza sostanziale con l’apparecchio americano era il contenuto del filtro. Questo infatti nella sua versione prototipale, invece di essere provvisto di semplice calce sodata, era riempito di perossido di sodio, una sostanza chimica che, oltre a fissare l’anidride carbonica, è in grado di produrre ossigeno. Grazie a tale caratteristica, il Tauchretter (vedi l’esemplare della fig. 30 recuperato dal sottomarino germanico U-877) era in grado di assicurare una maggiore disponibilità di ossigeno durante la fase di risalita in superficie, a fronte però di una maggiore pericolosità insita nell’uso del perossido di sodio (una sostanza estremamente caustica ed in grado di produrre gravi ustioni in caso di contatto con le parti del corpo e dell’apparato respiratorio). Questa soluzione, che sarebbe poi stata ripresa diffusamente dai sovietici nella costruzione di numerosi modelli di apparecchi di respirazione per usi analoghi, fu presto abbandonata e sostituita con un classico bombolino riempito di ossigeno ed un filtro contenente semplice calce sodata.
fig. 29 | fig. 30 |
Il secondo esemplare di Momsen Lung entrato recentemente nella mia collezione e mostrato nella fig. 31 e 32, fa parte degli ultimi lotti di produzione di questo apparecchio. Come si può notare nella fig. 32 il numero di brevetto del nuovo dispositivo di respirazione di tipo pendolare è chiaramente stampigliato sulla parte frontale del corpo della valvola a due vie del boccaglio.
fig. 31 | fig. 32 |
L’unico episodio certo e documentato di impiego di questo apparecchio con esiti parzialmente positivi è quello del salvataggio dei membri dell’equipaggio del sommergibile americano USS Tang affondato il 25 Ottobre del 1944. Dei 13 membri dell’equipaggio (su un totale di 30) che tentarono la risalita con il Momsen Lung, soltanto 5 riuscirono a raggiungere in salvo la superficie, ma furono poi catturati ed imprigionati dai giapponesi. Questo episodio è citato nel libro di Clay Blair Jr. “Silent Victory: The U.S. Submarine War Against Japan – 30 gennaio 2001”.Il Momsen Lung restò in uso con la US Navy fino agli inizi degli anni ’60 quando venne sostituito con lo Steinke Hood (cappuccio Steinke), brevettato nel 1963 del tenente di marina Harris E. Steinke (fig. 33 - 34 - 35 - 36).
fig. 33 | fig. 34 |
fig. 35 | fig. 36 |
Questo dispositivo funzionava in maniera simile al Momsen Lung, nel senso che non comprendeva bombole per l’erogazione di gas respiratorio durante la fase di risalita, ma rispetto all’apparecchio precedente non aveva alcun contenitore per la calce sodata, con tutti i vantaggi in termini di costi e di riduzione della manutenzione periodica. L’aria per la respirazione dell’operatore veniva prodotta dall’espansione del gas contenuto nel sacco polmone e quindi scaricata attraverso piccole valvole di massima pressione all’interno del cappuccio stagno, dotato di visiera trasparente e di snorkel per la respirazione all’interno del sommergibile e in superficie. L’altro vantaggio dello Steinke Hood era che l’operatore poteva respirare in modo naturale dal naso con minori rischi di sovradistensione polmonare.
Nel dopoguerra ci furono altre linee di sviluppo di questi apparecchi che seguivano lo schema costruttivo e funzionale del DSEA, ma che potevano impiegare i nuovi materiali e tecnologie disponibili ed anche le migliori conoscenze di fisica e fisiologia in ambiente iperbarico.
L’apparecchio mostrato nelle Fig. 37, 38, 39 e 40, è stato prodotto in UK durante gli anni ’80 (purtroppo non sono riuscito ad identificare l’azienda costruttrice). Come si può vedere il principio di funzionamento è restato simile a quello del DSEA (sacco polmone con filtro all’interno, circuito di respirazione pendolare, boccaglio con cinghiolo di ritenzione al collo, occhiali e molletta stringinaso), ma con alcune modifiche sostanziali rispetto a questo. Il bombolino (fig. 38) non conteneva più ossigeno ma aria compressa (o Nitrox) per consentire una maggiore quota operativa, riducendo i rischi legati alla respirazione di ossigeno iperossico, ed erogava un flusso costante di gas in modo da reintegrare la quantità di ossigeno consumata dal metabolismo dell’operatore. Il gas in eccesso erogato dal bombolino o semplicemente prodotto dall’espansione volumetrica nel sacco polmone durante la risalita, veniva smaltito attraverso la valvola di massima pressione mostrata nella fig. 40.
fig. 37 | fig. 38 |
fig. 39 | fig. 40 |
Lo Steinke Hood resterà in uso presso la US Navy fino alla fine del primo decennio degli anni 2000. Pur essendosi rivelato un apparecchio di ottime prestazioni, il suo limite era quello di non fornire alcun tipo di protezione termica agli operatori sia durante la risalita che nella fase di galleggiamento in superficie in attesa dei soccorsi. Questo limite poteva rivelarsi fatale per il personale in condizioni di acque fredde anche soltanto con tempi di esposizione di qualche minuto. Furono pertanto proposte soluzioni che consentivano di migliorare sia l’aspetto della protezione termica che quello del galleggiamento in superficie. Vennero sviluppate varie configurazioni del nuovo dispositivo che venne chiamato SEIE (Submarine Escape Immersion Equipment) e adottato dalla US Navy e da molte marine militari dei paesi occidentali (è in uso anche ai nostri giorni). Questo apparecchio, di cui vediamo alcune foto nella fig. 41 e nella fig. 42, è omologato per evacuazioni da sommergibili fino ad una profondità di 600 piedi (183 metri) con velocità di risalita di 2-3 metri al secondo e la possibilità di evacuare più di otto marinai ogni ora (questo ultimo numero è limitato dalla capacità operative delle garitte di salvataggio del sommergibile). Come possiamo notare, l’attrezzatura comprende una muta integrale per la protezione di tutto il corpo e, in alcune versioni, anche un battellino pneumatico con tendalino per migliorare il galleggiamento ed il comfort dell’operatore in attesa dell’arrivo dei soccorsi.
fig. 41 | fig. 42 |
Le linee di sviluppo delle attrezzature che abbiamo illustrato in questo articolo e che hanno visto il Momsen Lung tra i principali protagonisti degli apparecchi destinati al recupero degli equipaggi dei sommergibili affondati, sono significativamente diverse da quelle intraprese dalle marine dell’ex blocco sovietico dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. L’obiettivo di realizzare apparecchiature con un buon compromesso tra efficacia, semplicità d’impiego e costi ragionevoli, evidentemente non fu considerato fondamentale per i sovietici che dettero vita, al contrario, ad apparecchiature molto complesse e di uso molto complicato con prestazioni dichiarate assolutamente incredibili in termini di profondità operative. Le soluzioni da loro proposte furono molteplici ed alcune realmente complesse e potenzialmente pericolose (es. rebreather di tipo semichiuso SCR con sistemi meccanici automatici di regolazione dei flussi di gas e filtri a generazione di ossigeno funzionanti a perossido, ecc.). Ma questa è un’altra storia che forse racconteremo in un prossimo articolo.