IL BLUE HOLE DELLE MALDIVE

a cura di DODI TELLI

           


A tutt’oggi il Blue Hole delle Maldive risulta l’unico dell’Oceano Indiano e fu scoperto per caso parecchi anni fa. Diventò quindi mèta di diverse spedizioni scientifiche organizzate da Albatros Top Boat di Dodi Telli, dimostrandosi interessantissimo dal punto di vista geologico. Seguirono parecchie pubblicazioni scientifiche e alcune cronache su una rivista subacquea ma presto fu pressoché dimenticato, non rivestendo un interesse turistico. Si apre infatti su un fondale di 30 metri, proprio il limite massimo concesso dalla legge maldiviana alle immersioni, tanto che per la sua esplorazione occorsero speciali permessi. Attualmente sembra che le cose potranno evolversi, si spera nell’apertura alle immersioni tecniche quindi ai rebreathers a circuito chiuso, apparecchi ideali per scendere nel “buco blu” preservando l’integrità di alcune delicatissime formazioni presenti lungo le pareti, invece danneggiate irrimediabilmente dalle bolle di scarico dei soliti erogatori. Nei due articoli che seguono vediamo di cosa si tratta.

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LA PRIMA IMMERSIONE NEL BLUE HOLE
di Massimo Sandrini

Quando trovai per la prima volta il Blue Hole grazie all’ancora della barca che si era incastrata, sul fondo avevo di fronte un comunissimo “giri”. Il “giri” in dhivehi (la lingua maldiviana) è una piccola secca che si erge generalmente all’interno delle lagune. Ed è proprio questo piccolo giri il miglior punto di partenza per l’immersine nel Blue Hole, in primo luogo perché  è l’unica formazione corallina che si erge fino a 12 metri dal fondale sabbioso e monotono circostante, in secondo luogo perché scendendo sul versante nord del giri si precipita direttamente all’inizio della bocca del Blue Hole, a 30 metri di profondità.
L’acqua da 0 a 30 m è generalmente torbida, non dimentichiamo infatti che siamo in un ambiente lagunare; per lo stesso motivo la corrente è praticamente inesistente, cosa che risulta strana per chi è abituato alle normali immersioni alle Maldive dove, forte o debole che sia, la corrente regna sovrana.
Arrivati a –30 si può ammirare l’imboccatura del blue hole, sembra infatti che il fondo sabbioso e chiaro venga inghiottito da una voragine scurissima.

Inizia l’avventura, ci si rende conto di scendere in un mondo tutto particolare. Imperativo stare vicino alla parete per avere un riferimento e per poter illuminare con la torcia, o meglio con le torce, le strane strutture che andiamo ad incontrare. Attenzione però alle pinneggiate, dato che le piccole terrazze in parete sono coperte da sottilissimo limo molto facile da sollevare.
Fino ai 40-45 metri le pareti sono a sviluppo praticamente verticale ed  è quindi sufficiente regolare l’assetto per scendere senza allontanarsi dalle stesse. Vale solo la pena di soffermarsi ad osservare da vicino le caratteristiche del mondo che ci si para innanzi.
Ma ecco che entriamo in una fitta nebbia, rossastra alla luce delle torce, e occorre avvicinarsi ancora di più alla parete. Ma dov’è? Si sta allontanando da noi, siamo infatti ormai all’interno del blue hole e le pareti iniziano a strapiombare. La forma del blue hole assomiglia infatti a quella di un’enorme campana dal profilo assolutamente irregolare, tanto che immergendosi in altri punti, soprattutto a nord, l’inclinazione  è tale da diventare realmente impegnativo seguire la parete che diventa quasi un soffitto incombente sul subacqueo.
Questa fascia nebbiosa prende il nome di chemioclino (fenomeno specifico del confine tra acque ossigenate e acque ricche di acido solfidrico) e si avverte immediatamente per il forte odore di uova  marce che evidentemente riesce a penetrare attraverso maschera ed erogatore (provare per credere). Questo odore deriva proprio dalla forte concentrazione di acido solfidrico, l’acqua al tatto da la sensazione di essere leggermente unta e, oibò, i nostri piombi, reagendo con lo stesso, sembra che abbiano preso il sole assumendo un bel colore “canna di fucile”.
Dei rari pescetti che vagavano all’imboccatura del blue hole non vi è più traccia, la vita sembra essere del tutto scomparsa complice l’acido solfidrico e la mancanza di ossigeno disciolto nell’acqua. Le pareti mostrano resti corrosi di stalattiti e stalagmiti, nonché crostoni verdastri e rossastri di solfobatteri. Una foto fatta in certi punti potrebbe sembrare la tavolozza di un pittore impazzito.
Siamo arrivati sui 55 m di profondità, l’oscurità è assoluta, è esattamente come fare un’immersione notturna. Per contro, con l’ausilio di potenti fari lo spettacolo è assicurato grazie all’acqua diventata ora limpidissima. Dalla volta del blue hole pendono infatti migliaia di “peloni” (vedi foto) che a festoni drappeggiano tutta la parete. Sembrano tante piccole stalattiti di ghiaccio immobili nell’acqua scura, la tentazione di toccarli è forte ma, ahimé, se lo si fa non resta nulla in mano se non della polvere, sono infatti strutture batteriche estremamente effimere.

Sui – 65 m  da una piccola cengia sbuca qualcosa di strano, sembrano migliaia di matite biancastre infilate nella “roccia”. Siamo di fronte forse ai resti dell’apparato radicale di una palma ormai fossilizzata, su di essa sono infatti cresciuti 65 metri di corallo, pensate quanti anni.
La parete inizia a raddrizzarsi e torna quasi alla verticalità, si scende ancora, a -75  si vede il fondo che riverbera debolmente la luce delle torce, è molto chiaro e in forte pendenza verso la parete, tanto che puntando i fasci di luce verso l’interno della cavità si vede chiaramente che la profondità è maggiore vicino alle pareti che non verso il centro del blue hole.
A -82 siamo sul fondo, ci accoglie un limo sottilissimo dov’è incastonato lo scheletro di una manta, una rapida occhiata in giro ed è subito ora di risalire, una lunga decompressione ci attende.

Durante la risalita ci accorgiamo di aver danneggiato tutta una strisciata di “peloni” strappati dal turbinio di bolle emesse dai nostri erogatori e risalite lungo la parete. Le stesse bolle che hanno trascinato con se il sottile limo delle pareti fino all’imboccatura del pozzo, rendendo completamente torbida tutta la colonna d’acqua sino alla superficie.
La decompressione è lunga e
noiosa appesi ad una cima calata assieme alle bombole di scorta dal fido diving-dhoni, che dondola pigramente nelle calmissime acque di Faanu Madugau.
Massimo Sandrini
Geologo - Oceanografo

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LA RICERCA SCIENTIFICA
In una delle Crociere Scientifiche organizzate da Albatros Top Boat è stata esplorata una vasta e profonda cavità sommersa nell’atollo di Ari, indagando sulle cause della sua formazione e sulle sue caratteristiche ecologiche. I primi risultati dell’esplorazione e degli studi effettuati suggeriscono che i “buchi blu” maldiviani traggono origine da fenomeni carsici particolari dovuti alla corrosione della roccia corallina da parte dell’acido solfidrico, per tramite dell’azione batterica.
Testo di Paolo Colantoni e Carla Morri
Disegno di Giuseppe Baldelli

Da qualche tempo circolava la voce tra i subacquei italiani dell’esistenza alle Maldive di profonde cavità sommerse dall’aspetto simile ai famosi “Blue Hole”, noti soprattutto alle Bahamas ed ai Caraibi. Nel 1998 Massimo Sandrini dell’Albatros Top Boat scopriva per caso, nel corso di una breve immersione per il recupero di un’ancora, una cavità siffatta in una laguna dell’atollo di Ari. Successive immersioni confermavano l’esistenza di un “buco blu”, di dimensioni molte vaste (si stimò un perimetro non inferiore ai 150 m) e di profondità sconosciuta. Non vi è traccia di tale profonda depressione del fondale su nessuna delle carte della zona.
L’Albatros Top Boat e l’International School for Scientific Diving (ISSD), un'organizzazione riconosciuta dalla CMAS e dall'UNESCO e formata da scienziati professionisti legati ad Università ed altri Enti di Ricerca, collaborano da diversi anni alla realizzazione di crociere scientifiche, destinate alla divulgazione e promozione della ricerca subacquea.
Le crociere dell’Albatros Top Boat negli anni a seguire il 1998 hanno giustamente posto tra i gli scopi un primo studio del “buco blu” delle Maldive. Ad esse hanno in particolare partecipato diversi ricercatori e subacquei: Giuseppe Baldelli, Giovanna Bernardini, C. Nike Bianchi, Franco Bonolis, Francesco Cinelli, Paolo Colantoni, Daniela Mencucci, Carla Morri, Donatella Telli, Massimo Sandrini, Anna Proietti Zolla.

L’esplorazione
Per una prima descrizione del buco blu sono stati necessari due giorni di lavoro e quattro immersioni condotte da un’équipe di 8 subacquei, organizzata in coppie di lavoro che hanno curato i vari aspetti (topografia, batimetria, fotografia, video, osservazioni biologiche, prelievi).
Il rilevamento topografico generale e la batimetria sono stati effettuati attraverso l’uso di capisaldi e cime metrate, bussole, profondimetri e sonar portatili subacquei. Sono state scattate fotografie delle pareti della cavità e delle biocenosi presenti, e sono stati prelevati campioni d’acqua. Le condizioni di lavoro erano tali da richiedere la massima cautela, a causa della torbidità, del buio e della profondità elevata. Per fortuna, la temperatura delle acque maldiviane permette l’uso di un equipaggiamento molto leggero e, di conseguenza, scarsa zavorra: entrambi i fattori facilitano l’operatività subacquea.

Il “buco blu” delle Maldive è risultato essere un’ampia cavità a forma di cupola, con un’apertura subcircolare di circa 70 metri di diametro, che si allarga scendendo sino a raggiungere il fondo a 82 metri di profondità. L’ingresso si apre, quasi come un’immensa botola, su un fondale di 30 m in una grande laguna, nei pressi di una secca rocciosa il cui cappello si trova a 13 m di profondità. Le acque sono piuttosto torbide, caratterizzate dalla presenza di uno strano flocculato bianco che si va addensando attorno ai 40‑50 m. Al di sotto, l’oscurità si fa completa ed è necessario l’uso di adeguate fonti di illuminazione. Per contro, l’acqua diventa più limpida: ciò è dovuto all’esistenza di un netto gradiente chimico nella colonna d’acqua che tende a “trattenere” il particellato sospeso al di sopra della fascia di profondità suddetta. Tale gradiente chimico, chiamato in termini scientifici “chemioclino” (così come viene chiamato termoclino il gradiente di temperatura noto a tutti i subacquei), è il responsabile dell’addensamento dei flocculi e, conseguentemente, della completa scomparsa della luce al di sotto. Un forte odore di acido solfidrico (H2S), addirittura avvertibile dai subacquei attraverso la maschera, ha fatto ipotizzare che tale gradiente chimico fosse dovuto essenzialmente alla presenza di solfuri nelle acque profonde della cavità. La stessa ipotesi era peraltro suggerita dal forte annerimento che subivano i piombi della zavorra dopo immersioni sotto i 50 m. Prelievi di acqua a varie quote hanno dimostrato appieno quest’ipotesi: l’acido solfidrico è assente a 40 m, presente in debole concentrazione a 50 m, e va poi ulteriormente aumentando con la profondità.

Il popolamento biologico​
L’acido solfidrico è tossico per la maggior parte degli organismi; inoltre la sua presenza esclude quella di ossigeno disciolto. Al di sotto del chemioclino, dunque, non vi è traccia di vita animale. Le pareti appaiono praticamente nude, se si eccettuano patine di colori rossastri o verdastri che sono probabilmente dovute a batteri, e costellate di numerose piccole nicchie e solchi di corrosione. Avvicinandosi al chemioclino, le patine batteriche si fanno più cospicue, laddove la roccia non è coperta da un velo di limo. In corrispondenza della fascia di addensamento dei flocculi, si osservano filamenti bianchi mollicci attaccati alle pareti. Filamenti simili, che possono raggiungere anche 1 o 2 cm di lunghezza, sembrano essere alla base della formazione dei flocculi. Esaminandoli ad un certo ingrandimento, tali filamenti sembrano essere dovuti anch’essi a dei batteri, probabilmente Beggiatoa, noti per essere in grado di operare l’ossidazione dell’acido solfidrico (H2S) in acido solforico (H2SO4). Da questa ossidazione essi traggono l’energia per la loro sussistenza. Ovviamente necessitano di ossigeno ed è per questo che le Beggiatoa vivono all’”interfaccia” tra acque ricche di acido solfidrico (come quelle sotto al chemioclino) ed acque normalmente ossigenate (come quelle sopra il chemioclino).
Nelle acque ossigenate sopra il chemioclino, la vita animale ricompare. Dapprima si ritrovano solo alcuni organismi incrostanti, soprattutto spugne. Negli anfratti che caratterizzano i pressi dell’ingresso della cavità trovano rifugio alcuni pesci, anche se non è stata trovata traccia di un’enorme cernia che si favoleggiava dovesse allignare in quei paraggi. Immediatamente all’esterno del “buco blu”, le comunità coralline appaiono impoverite, caratterizzate solo da coralli incrostanti e coralli molli, indicando l’effetto di uno stress ambientale: la torbidità, l’elevata sedimentazione di limo o, chissà?, qualche occasionale fuoriuscita di acido solfidrico potrebbero essere all’origine di questo stress.

Ipotesi sulle origini del buco blu​
Depressioni sub-circolari, profonde decine di metri ma di modesto diametro, sono morfologie note ma ben poco frequenti. Esse pongono però il problema della loro origine, spesso oggetto di speculazioni fantasiose e poco attendibili.
I fenomeni che possono dar luogo a simili morfologie sono riconducibili ad almeno tre situazioni, riconoscibili in diverse parti del mondo, sia sulla terraferma sia sui fondali marini. Esse sono:

a) eruzioni vulcaniche
b) soluzione di sale presente nelle successioni geologiche
c) carsismo


a) È noto che il substrato sul quale sono state edificate le Maldive è vulcanico ma, come è stato dimostrato dalle perforazioni eseguite, esso è attualmente coperto da almeno 2000 metri di formazioni coralline che, con la loro crescita, hanno compensato lo sprofondamento continuo degli apparati vulcanici cominciato circa 40 milioni di anni fa. Da allora nessuna eruzione è stata segnalata nella zona. Appare quindi molto improbabile (se non escluso) che la depressione possa essere dovuta al collasso di un edificio vulcanico (caldera) recente delle Maldive.

b) In diverse parti del mondo, anche sui fondali marini, sono note depressioni dovute alla soluzione di livelli di sale in profondità che causa lo sprofondamento di strati superficiali. È questa, per esempio, la spiegazione di estesi abbassamenti nelle zone profonde del Mar Rosso, del Golfo del Messico ed anche del Mediterraneo. Ancora una volta, però, questo non può essere il caso delle Maldive, ove nessuna perforazione ha mai riscontrato livelli di sale la cui mobilità e soluzione potrebbero aver causato una cavità di sprofondamento.

c) È molto probabile invece che la depressione osservata sia dovuta a vecchio carsismo. Essa può richiamare, infatti, una        struttura simile a quelle note in terraferma come doline o inghiottitoi. A sostegno di questa ipotesi si può osservare che le         Maldive mostrano frequenti tracce di corrosione carsica nella roccia corallina. Molto abbondanti sono infatti i solchi, le grotte e   altre morfologie che indicano fasi di emersione delle scogliere con conseguente evoluzione subaerea del paesaggio ad opera   principalmente dell'acqua piovana. Per poter sostenere l'ipotesi della semplice origine carsica, occorre tuttavia poter   dimostrare che in questo punto penetrava nel sottosuolo un'ingente quantità d'acqua dolce carica di CO2 da un esteso   bacino di raccolta, bacino di cui però non vi è traccia nell'area del Blue Hole.
Anche questa spiegazione appare quindi poco suffragata dalle evidenze. Nell'acqua che riempie la nostra depressione è stata però riscontrata la presenza di acido solfidrico in concentrazioni che sembrano aumentare con la profondità.

 Questo elemento potrebbe essere la chiave per spiegare l'origine di questo 
 particolare “buco blu” che potrebbe rappresentare una cavità "ipogenica" il cui   tetto è crollato. Questo tipo di cavità è dovuto non alle acque di precipitazione   meteorica che a causa della gravità penetrano nella roccia dall'alto verso il   basso determinando la corrosione secondo il classico schema del fenomeno   carsico, ma è formato da fluidi ascendenti; nel nostro caso, dalla risalita di acido   solfidrico (H2S). Grotte di questo tipo sono note in diverse parti del mondo ed   anche in Italia, dove l'acido solfidrico è contenuto in convogli termali (come nel   caso delle grotte di Capo Palinuro) ma anche in acque fredde (Grotte di Frasassi). La corrosione (e l'ipercarsismo) avverrebbe in ambiente ossigenato ove l'acido solfidrico passerebbe a solforico, il quale, reagendo con il calcare, favorirebbe anche la liberazione di anidride carbonica che a sua volta aumenterebbe ancora la corrosione. Alle Maldive, quindi, H2S di origine profonda, risalendo ed entrando in contatto con l'acqua di mare, reagirebbe sciogliendo il carbonato di calcio che costituisce le scogliere, formando cavità che eccezionalmente arrivano alla superficie. Nessuno ha tuttavia mai descritto strutture superficiali del tipo riscontrato nell’atollo di Ari, ma soprattutto nessuno, prima della nostra scoperta della presenza di acido solfidrico nel “buco blu” delle Maldive, ha invocato per la formazione delle cavità il meccanismo ipogenico. Ma quale potrebbe essere l'origine dell'acido solfidrico alle Maldive? In primo luogo esso potrebbe provenire dai solfati contenuti negli strati profondi, secondo lo schema invocato per spiegare la composizione delle acque profonde circolanti nel nostro Appennino, ma la situazione geologica delle Maldive è molto diversa. La segnalazione della presenza di anidrite (CaSO4), in pozzi perforati nella zona non è stata infatti confermata, ma piuttosto accesamente contestata.
Nelle caverne di Carlsad (New Mexico) si è dimostrato per la prima volta che grandi cavità possono essere formate per corrosione dei calcari ad opera dell’acido solfidrico (H2S) piuttosto che dell'acido carbonico (CO2): fu in particolare ipotizzato che tali acidi possano essere associati alla migrazione di idrocarburi contenuti nella massa rocciosa. Anche in questo caso però, il petrolio e il metano sarebbero venuti a contatto con l'anidrite per formare acido solfidrico. Alle Maldive si possono certamente ipotizzare flussi di idrocarburi che possono risalire attraverso faglie e fratture della massa carbonatica, ma ancora una volta non basta, anche se esistono idrocarburi spesso ricchi di composti dello zolfo. Resta la riduzione dei solfati, abbondanti in acqua di mare, operata in ambiente non ossigenato da batteri solfato riduttori.
Riassumendo, quindi, c'è la possibilità che l’acido solfidrico derivi dall'attività batterica, dall'ossidazione del petrolio e dal petrolio stesso in ambienti sepolti, ma vicini alla superficie. Specifiche ricerche, con determinazione della composizione isotopica dei singoli prodotti, potranno in futuro chiarire il problema.

IMMERGERSI NEL "BUCO BLU"
L’immersione nel “buco blu” non è delle più facili. La profondità cui si apre è già abbastanza rilevante (30 m) e le acque sono torbide e poco illuminate, anche per la presenza del flocculato in sospensione. Una visita della zona prospiciente l’ingresso ed una limitata penetrazione dello stesso fino alla fascia sovrastante il chemioclino è alla portata di subacquei già esperti, in piccoli gruppi e ben guidati da accompagnatori che conoscano perfettamente la cavità e le difficoltà di questa immersione.
Entrare più compiutamente nel “buco blu”, scendendo al di sotto del chemioclino, è riservato a subacquei molto esperti, adeguatamente equipaggiati ed organizzati. Penetrare all’interno del “buco blu” rappresenta un misto di immersione notturna, di immersione profonda, di immersione in acque torbide e di immersione in grotta. L'immersione stessa, inoltre, può provocare forti emozioni che, se da un lato ne costituiscono il fascino, possono dall’altro aumentare il grado di difficoltà.

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