3. CORALLO ROSSO - INCONTRI E RACCONTI

LUIGI FABBRI

 

SETTEMBRE 1994  
Torno in Sardegna dopo il mese di agosto passato a scorrazzare nell'arcipelago della Maddalena come avviene da anni. L'amico Angelo Gadau, grande fotografo subacqueo, mi ha presentato ad alcuni dei corallari sardi più noti ed ora sono a Porto Conte (Alghero) da dove tutto è cominciato nel 1955, quando arrivarono Leonardo Fusco, Claudio Ripa, Ennio Falco e "Pelos" La Capria.  A Punta del Giglio di Capo Caccia trovarono il corallo a 20 metri di profondità, però era piccolo e rado, non ci pagavano nemmeno le spese, così avevano deciso di andarsene. Senonché l'ultimo giorno s'infilarono in una grotta con l'apertura a 30 metri, aveva le pareti interamente ricoperte di stupendo Corallium rubrum mediterraneo vestito dei suoi bianchissimi polipi. Si fermarono e, come racconta Gaetano Cafiero nel suo famoso libro "Vita da Sub", in pochi giorni ne raccolsero 20 quintali.

1. Corallo rosso del Mediterraneo
(Tutte le fotografie di questo articolo sono dell'autore)

La zona peraltro era famosa da sempre per il corallo, la frequentavano le barche dette Coralline attrezzate con l'Ingegno, ma naturalmente il loro infernale arnese non si infilava nelle grotte e le aveva lasciate intatte nei secoli.
A Porto Conte esco una volta con due sub piuttosto schivi, vanno sui 70 metri ad aria con la deco in ossigeno, non sembrano molto organizzati e prendono i rimasugli di chi è passato prima. Qui a interessarmi davvero è il bellissimo minisommergibile che altri stanno finendo di mettere a punto, sperando di ottenere il permesso di usarlo per andare profondi e sicuri alla ricerca dei pregiatissimi rami. Il permesso non arriverà mai e il mezzo sarà presto dirottato verso meno romantici lavori subacquei. Peccato, l'idea di farci un giretto mi era effettivamente frullata per la  testa.
Mi consolo con le succulenti cene in una trattoria appena fuori paese, dove vengo a conoscenza di un "fattino" divertente lontanissimo dalla subacquea. Salta fuori un discorso sui cinghiali, ancora non si sospettava la proliferazione attuale ed erano considerati animali assolutamente selvatici, difficili da avvistare, pericolosi. Infatti era stata di base lì, poco tempo addietro, una troupe televisiva impegnata in un reportage su questi selvatici zannuti da riprendere nelle impervie forre e boscaglie dei monti intorno. Lavoro difficile e impegnativo, o almeno così doveva apparire in Tv. I locali ridono, non capisco perché, poi il locandiere mi fa uscire sul retro tutto arbusti e sottobosco; c'è una rete e un cancello, fa un verso e dalla macchia sbucano 4 o 5 cinghialoni che vivono nel grande recinto. E proprio attraverso quella rete erano stati immortalati dalle telecamere dell'eroica troupe televisiva.
Nei giorni successivi faccio più volte la spola con Stintino e soprattutto con Santa Teresa di Gallura, sveglia alle 4 per incontrarmi con Angelo prima dell'alba alla periferia di Sassari.
Al porto di Santa Teresa beviamo un caffè prima di salire a bordo, il marinaio ha già predisposto tutto quanto di sua competenza e molliamo gli ormeggi. Antonio Murru e Mario Bulciolu, personaggi famosi già da vent'anni, si danno da fare con le proprie attrezzature. Quando siamo oltre le Bocche di Bonifacio Murru prende il timone e imposta sul Gps le coordinate di uno dei cento punti segreti segnati sul foglio disteso sulla plancia, dice qualcosa al fidato marinaio e ci raggiunge a poppa. La barca di ferro pitturata di beige è davvero grande, ci si muove comodamente tra i pacchi intimidenti dei bomboloni d'elio e di ossigeno, il grosso compressore, le decine di attrezzature intorno. Le due camere iperbariche sono a lato, mimetizzate dietro la timoneria.

Fig. 2-3 - Antonio Murru ai comandi della sua grande barca attrezzatissima

Fig. 4-5 - Murru e Bulciolo finiscono di preparare le loro attrezzature. La grande barca
ospita a poppa il compressore, il pacco dei bomboloni di elio e quelli di ossigeno. Nella foto

destra le due camere per la decompressione a bordo


È la seconda volta che esco con loro, oggi i due scenderanno a turno sullo stesso punto. Iniziano insieme a vestirsi, quando arriverà in superficie il pedagno lanciato da Bulciolu dopo pochi minuti si tufferà il suo compagno. Indosso anch'io la muta, il mono da 15 con i due erogatori è pronto insieme alla Nikonos col 15 mm, sul polso sinistro ho l'Aladin Pro, sul destro il Suunto di scorta. I patti sono chiari, in acqua sarò assolutamente solo, il barcaiolo non mi guarderà nemmeno perché ogni sua distrazione andrebbe a scapito della sicurezza dei suoi due sub. Loro vanno come sempre col rebreather, hanno due Dräger FGG III a circuito semichiuso, modificati e con due bombole da 10 litri aggiunte dietro. Murru da qualche minuto ha gli occhi fissi sul mio Aladin, mi chiede se è affidabile, vorrebbe provarlo. Gli dico che ha il limite a 99 metri, oltre andrebbe in tilt. Mi porta a vedere la traccia dell'ecoscandaglio, loro scenderanno su due scogli vicini con un fondale intorno di 93 metri. Glielo passo, lo fissa accanto all'orologio e al profondimetro. Il suo compagno salta in acqua, sul fondo sono previsti 15-20 minuti. Poi la decompressione si svolgerà più o meno come descritto nell'articolo precedente, con la risalita in barca per infilarsi rapidamente in camera iperbarica dove trascorrere la lunga parte finale. Il tempo passa veloce, guardo il rompersi in superficie delle rare bolle emesse dal reb, oggi il mare è uno specchio ed è facile seguirle, ma come ci riescono quando è anche solo increspato? Ecco il pedagno di Bulciolu, con calma Murru si sistema addosso le ultime cose, guarda l'orologio e dopo una ventina di minuti dal tuffo del compagno va anche lui.

Fig. 6-7 - Antonio Murru col reberather pronto al tuffo, al polso ha il Rolex, il Prof Gsd e
il mio Aladin Pro. A destra l'entrata in acqua vicino al pedagno lanciato dal compagno
prima di iniziare la risalita

Resto a bordo per assistere alle procedure di decompressione, al lavorio incessante del barcaiolo che per prima cosa ha calato il bibombola d'aria per la deco del primo sub, poi la cima con la zavorra per il sub, la cima per il recupero del rebreather con appesa la lavagnetta per eventuali comunicazioni, quindi il tubo dell'acqua calda. Infine cala a 15 metri la manichetta con l'erogatore dell'ossigeno, pronto per l'ultima parte della decompressione in acqua. Bulciolu sta probabilmente completando la deco in aria, l'altro tra breve si staccherà dal fondo e voglio incontrarlo mentre risale. A 60 metri nell'acqua cristallina mi fermo sulle sue bolle, in alto si staglia chiaramente il profilo della nostra barca. Per un momento mi godo una sensazione di libertà assoluta, sono nel nulla appeso immobile e leggero al mio gav, nessuno intorno, solo una bolla silenziosa mi passa vicino di tanto in tanto.
Dal nero sotto di me Murru sbuca veloce, mi supera e si stoppa poco prima dei -50 accompagnato da un forte pigolio, un lamento d'allarme lanciato in continuo dal mio povero Aladin. Mi dirà più tardi che da un lato lo scoglio scendeva a -106,  di conseguenza il computer è andato oltre tutti i suoi limiti. Continuerà a lamentarsi per 36 ore filate. Dalla barca arriva il bibombola dell'aria, lo scambio è fatto con tutta calma, rebreather e coppo partono verso l'alto. Il sub col mio computer urlante inizia la prima fase della sua deco, mentre Bulciolu l'ha terminata e sta per avviarsi alla quota dell'ossigeno. Per qualche momento si incontrano, si scambiano un saluto.

Fig. 8 - Incontro tra compagni in decompressione

Fig. 9-10 - La sosta deco più fonda è terminata ma la barca è ancora lontana 


Fig. 11 - Il sub si avvicina alla quota dove l'attende l'erogatore dell'ossigeno  

Guardando verso l'alto è tutto un caos apparente di cime e tubi che si incrociano, di cose che scendono o risalgono, eppure fila tutto in ordine, in perfetta sincronia.
Quando Murru arriva a sua volta a quota ossigeno io risalgo, termino la deco e in barca vedo una delle due camere chiuse. Finite le soste in O2, appena a bordo lui si spoglia rapidamente mentre mi chiede cosa diavolo ha l'Aladin per fare tutto quel fracasso. Poi, nudo, s'infila nella seconda camera da dove uscirà quando siamo già da un po' in porto, è quasi sera, l'ora giusta per l'aperitivo.

 Fig. 12-13 - Lumachine parassite del corallo. A destra un piccolo granchio,
altro
ospite del corallo

Nei giorni successivi sono a Stintino, esco con Massimo Ciliberto. Lui e il compagno vanno in circuito aperto, i tribombola a miscela arrivano già carichi, la barca non è molto grande e la camera di decompressione occupa metà dello spazio a poppa.


 


Anche loro vanno in immersione uno dopo l'altro, il primo lascia il segnale soltanto se ha trovato uno scoglio che merita. Non è il caso di oggi, il coppo risale con quasi nulla e occorre decidere se tornare in un posto noto dove si dovrebbe almeno prendere quel tanto per rifarsi delle spese della giornata, oppure tentare la sorte. Sul foglio quadrettato è evidenziato un punto lontano da tutti gli altri, uno scoglio piccolo e solitario circondato dal fango scovato tempo addietro dallo scandaglio. Se non vi è nulla la giornata terminerà con un bilancio totalmente negativo. Alla fine la decisione è presa, si va lì. Viene lanciato il pedagno sul punto esatto, Ciliberto indossa l'ingombrante attrezzatura e si tuffa seguendo il filo diretto allo scoglio. Dopo un po' lo seguo, in superficie arriva uno sterminio di bolle che friggono rompendosi, dal nero sbuca la loro scia bianca intervallata a indicarmi dove fermarmi ad aspettarlo. Poi compare la sua sagoma incorniciata dalle bolle, ha il grande coppo quasi pieno, si ferma con gli occhi ridenti a mostrarmi un paio di rami. La dea fortuna ha detto si.

 

Fig. 14 - Nella foto sopra il marinaio salpa il tribombola a miscela 18+18+10 litri

Fig. 15-16 - Il tribombola della miscela è stato sostituito con l'apparecchio ad aria ed ora sta per essere spedito in superficie.
Nell'altra immagine il coppo appeso alla cima calata dalla barca tra poco verrà salpato, mentre più in alto si vede il sub
impegnato nel cambio di autorespiratore per dare inizio alla decompressione

Fig. 18-19 - Rientro a Santa Teresa di Gallura. A destra una delle tante barche di corallari
presenti a quel tempo nel famoso porto sardo

 

SETTEMBRE 2021
Non sapevo nulla del corallo in Puglia, pensavo non ce ne fosse proprio pur se in un'antica mappa risalente ai tempi dell'Ingegno vi erano indicati due punti validi. A parlarmi di un corallaro di laggiù sono stati Nicoletta e Pier Da Rolt, "è un amico, potrà raccontarti tante cose", mi dicono. Un paio di telefonate e mi fiondo a Otranto, accompagnato dal maestrale che rende il mare blu cupo e l'aria luminosa come solo quelle coste sanno offrire.
Incontro Salvatore Bortone e sua moglie Rita Chiurli, sono titolari del DWD Diving Salento con base operativa a Marina di Castro. L'accoglienza è degna delle migliori tradizioni del sud Italia.
Lui per sette anni ha operato come sub professionista free lance, nel 1978 per la Sub Sea Oil Service, in seguito con la Micoperi per lavori in saturazione su piattaforme petrolifere in mezzo mondo. "Poi" -  dice - "non ho resistito al richiamo della mia terra, sono tornato, mi sono sposato e adesso ho una bellissima famiglia".

Fig. 20-21 - L'antica mappa risalente ai tempi dell'Ingegno mostra in Puglia solo due punti interessanti per la pesca del corallo, qui riportati in rosso. A destra Salvatore Bortone

Gli chiedo del corallo, mi racconta che qui non era conosciuto, nessuno se ne interessava.
I primi sub a pescarlo sono stati tre napoletani negli anni "60, hanno fatto tutto il giro delle coste pugliesi da Otranto a Taranto. I due sub si chiamavano forse Pane e Perez, il terzo conduceva il gozzo di legno ed era abilissimo nell'interpretare i segnali dell'ecoscandaglio. A Otranto c'è una secca nota a tutti, chiamata Mina perché sotto c'è una grossa mina dell'ultima guerra. Ha profondità tra i 45 ed i 51 metri, è piccola, 25 x 6 metri circa, ed a quel tempo era talmente fitta di corallo che la roccia nemmeno si vedeva. Ne hanno ricavato diversi quintali, quindi sono scesi verso sud e un pescatore di Tricase gli ha dato un posto favoloso, una parete lunga circa un miglio tra i 60 ed i 68 metri di profondità: ha reso sette quintali di corallo. Scendevano ad aria, per zavorra utilizzavano pietre dentro il coppo per poi abbandonarle sul fondo.
I pescatori ingenuamente gli davano le dritte di scogli e pareti, loro promettevano ecoscandagli dal costo allora inaccessibile, promettevano di farli ricchi. 
Da Tricase sono passati a Santa Maria di Leuca, quindi alle secche di Ugento, di origine coralligena, da scoprire in mezzo alla sabbia quasi otto miglia al largo. Sono luminosissime, formano grandi atolli rialzati dal fondo di un metro e mezzo. Ora sono completamente invase da Gerardia savaglia cresciuta in enormi arbusti mai visti altrove del diametro di 80 cm, diramati in tronconi da 30-35 cm. Poi i napoletani sono arrivati a Gallipoli, dove hanno raccolto tonnellate di corallo passando in fretta le pareti a caccia dei rami migliori, senza ripulire completamente la zona.
"Io ho iniziato a fare corallo nei primi anni "80" - racconta Bortone - "insieme a un ragazzo di queste parti. Uscivamo col "professor" Zizzi, un grande esperto proprietario di una bella barca con due motori, dividevamo in 4 le spese (una quota era per la barca), durò qualche anno. Più tardi uscivo col mio gommone da Marina di Castro. Raramente facevamo oltre i 25-30 chili di corallo l'anno, niente di particolare, spesso a profondità entro i 50 metri. A quei tempi veniva venduto intorno alle 700.000 lire al kg, un milione se c'era l'aggiunta di qualche ramo particolarmente grande. Nel mare di Ugento ci sono delle pareti fortunatamente sconosciute ai tre napoletani, difficilissime da individuare e raggiungere per le  correnti superficiali che in estate arrivano a  5,5 - 6 nodi rendendo l'immersione problematica, poi cessano improvvisamente sui 17 metri. Ci aiutavamo con i primi piccoli scooter sub, rinforzati all'interno per sopportare pressioni superiori ai 40 metri per i quali erano dati. Andavamo ad aria con un 15 + 15 a bombole separate, per la deco usavamo già l'Ean 40 su una bombola da fianco, ci affidavamo alle tabelle Comex e altre per l'Ean. Mai l'ossigeno puro per non andare troppo alti con la pressione parziale. Avevamo le tabella per la ricompressione curativa d'emergenza in acqua, cosa da farsi solo se uno sta bene, è lucido e non ha freddo, le abbiamo utilizzate parecchie volte quando si usciva con dei sintomi ed hanno sempre funzionato. La mia esperienza è durata una decina d'anni, però io non mi sento un vero corallaro infatti non andavo tutti i giorni, l'ho fatto per passione, per quel qualcosa da cui sei preso quando vedi il rosso di quei rami e sogni, pensi continuamente a cosa potrai trovare domani".
Più tardi andiamo a Gallipoli dal loro amico Giuseppe De Donno, corallaro professionista per quasi 40 anni. Conferma che nessuno sapeva nulla di corallo fino a quando arrivarono i tre napoletani negli anni "60, eppure fu rinvenuta la zavorra di una croce di santandrea, ossia l'Ingegno, a dimostrazione che da queste parti venivano le coralline chissà da dove molto tempo prima.
Il boom del corallo a Gallipoli è degli anni "77-"78. "Io all'inizio scendevo solo con l'aria" - ricorda De Donno -  "la profondità media era sui 70 metri ma a volte arrivavo a 90; con le miscele andavo spesso sui 100. Le pareti rocciose erano in genere nude, un ramo qua e uno là, bisognava fare tanta strada. Poi capitava di incontrare un piccolo scoglio completamente ricoperto di rami rossi, normalmente tra i 60 e i 70 metri. Nel 2016 ho trovato tre scogli pieni sui -60, quella stagione ha fruttato 50 chili; un'altra volta sono capitato su due scogli a -55, in quattro immersioni abbiamo fatto 20 kg. Prima e dopo era tutto deserto. Penso dipenda soprattutto dalla tipologia degli scogli, non solo dalle correnti. Ho pescato a Leuca ma c'erano troppe correnti variabili, poi da Gallipoli verso Ugento, un'area ristretta piena di scogli da esplorare uno per uno, di pareti profonde fino intorno ai 65 metri".

Fig. 22-23 - Nel secchio il corallo di un'immersione, a destra la bonifica dei rami

La ricerca, racconta, avveniva con l'ecoscandaglio ma senza Gps, per cui i punti bisognava ritrovarli con le mire a terra. Ogni punto veniva identificato con un numero riferito agli appunti riportati su un'agenda e segnato esattamente su un foglio di carta quadrettata che copriva un miglio quadrato. Vicino all'isola di Sant'Andrea (Gallipoli) nel 1994 si sono immersi su piccoli scogli sparsi sul fango tra i 58 ed i 62 metri e li hanno trovati tutti pieni di corallo, quel tratto ha reso 80 chili in due; in tutto il "94 hanno fatto il loro record con 160 chili. 

Negli anni "90 il corallo era pagato intorno alle 600.000 lire al chilo. Normalmente in due si facevano  40-50 chili l'anno, vale a dire un ricavo annuo di circa 25 milioni di lire. Dopo il 2000 valeva 1 milione/1 milione e trecento, ma 40.000 euro erano diventati meno dei 25 milioni di prima. Purtroppo in questi ultimissimi anni il prezzo è calato di molto. Adesso alcuni vanno a raspare perfino i rametti, in questo modo si distrugge tutto  e il corallo di un tempo non si vedrà più. Anche se in queste zone sembra ricrescere in fretta, in meno di 20 anni produce rami lunghi ma sottili, 4-5 mm alla base, infatti ne sono stati raccolti in alcuni punti dove erano sicuramente passati  i tre napoletani famosi. A provarlo c'erano sia le pietre di zavorra messe nel coppo e poi  scaricate sul fondo, sia pezzi di filo usato per i pedagni e ormai inglobato nei rami ricresciuti.
De Donno e il compagno uscivano con una barca da pesca di 15 metri, il "Nautilus II", avevano tribombola 12+12+12, poi 15+15+15 ad aria; per la decompressione si affidavano alle tabelle U.S. Navy. Se dovevano scendere oltre gli 80 metri caricavano le bombole a miscela, normalmente col 40% di elio.

 

 

 

 

Fig. 24 - Foto sopra: Tabelle ad aria U.S. Navy 1973 

 

Fig. 25 - La picchetta nella cesta del corallo appena pescato

Oggi in questa zona c'è ancora qualche corallaro che opera regolarmente, altri saltuariamente, hanno comunque la licenza. In Puglia si può andare tutto l'anno ma in inverno non merita, c'è acqua torbida e fredda, eppoi occorre fare 5 o 6 immersioni per trovare un punto valido, non è più come una volta.Quando è ormai l'ora di salutarci De Donno tira fuori un quaderno sul quale ha riportato tutto giorno per giorno, con i punti esatti visitati ed il corallo preso. Di questi quaderni ne ha collezionato una pila, uno per ogni anno in cui ha operato. Insieme ai fogli con riportate le coordinate delle immersioni, contengono un tesoro di informazioni, di ricordi e segreti che ogni corallaro custodisce gelosamente.   

 

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